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Furti sul posto di lavoro: quali conseguenze?

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Il mondo lavorativo si basa fondamentalmente su un rapporto di fiducia che si instaura tra lavoratore dipendente, colleghi di lavoro e datore di lavoro. Può accadere che alcuni avvenimenti interni all'impresa riescano a ledere questo vincolo sino, nei casi più gravi, a eliminarlo totalmente.
Probabilmente, l’esempio più eclatante di questi episodi così gravi è quando accadono dei furti all'interno dell'ambiente lavorativo.


In questo caso i furti chiaramente potrebbero interessare o il materiale e i beni propri dell'impresa oppure anche i beni personali dei colleghi.
Cosa succede in questi casi al responsabile? E soprattutto cosa fare se si scopre che un collega ruba?

Fondamentale, per trattare l'argomento, è differenziare le situazioni:
1. Furto ai danni dell'impresa;
2. Furto ai danni di un collega.

Nel primo caso, per giurisprudenza ormai granitica e maggioritaria, il datore di lavoro è autorizzato ad applicare la massima sanzione a sua disposizione e cioè il cosiddetto licenziamento in tronco o per giusta causa, il quale permette di espellere il lavoratore senza necessità di rispettare il preavviso, imposto invece negli altri casi di licenziamento o di dimissioni volontarie.

La Corte di Cassazione infatti, anche in una recente sentenza, la n. 14760/2022, ha sottolineato che per considerare legittimo il licenziamento per giusta causa rileva esclusivamente il disvalore intrinseco della condotta posta in essere, senza che abbia alcun rilievo l'entità del danno effettivamente creato oppure il danno che tale condotta possa conseguire all'impresa.

Non ha inoltre alcuna importanza quale sia la configurazione penalistica del gesto, non importa infatti che la condotta integri il reato di furto consumato, del solo tentativo di furto oppure di appropriazione indebita, ciò che deve essere valutato dal datore di lavoro è esclusivamente la gravità del fatto in sé e se tale gravità sia in grado di violare e ledere irrimediabilmente il rapporto di fiducia alla base della regolamentazione dell'impresa.

La sottrazione di beni di modico valore

L'unico punto su cui si riscontra della giurisprudenza discordante, con decisioni anche contrarie, riguarda il valore del bene sottratto e di conseguenza se sia corretto o meno licenziare il dipendente che si sia reso responsabile di sottrazione di beni di scarso valore.
In questo caso vi sono filoni discordanti:

- In alcune pronunce (n. 6764/2016 e n. 17288/2022) la Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento intimato ad un dipendente, in quanto tale sanzione era stata ritenuta eccessiva e sproporzionata rispetto al fatto compiuto e in relazione anche alle circostanze concrete del rapporto di lavoro instaurato;

- In altre pronunce (n. 11005/2020 e n. 24014/2017) la Suprema Corte ha rilevato che in tutti i casi in cui la condotta posta in essere dal dipendente sia idonea a ledere il vincolo fiduciario e sia tale da mettere in dubbio la futura correttezza degli adempimenti, a nulla rileva lo scarso valore commerciale del bene sottratto e il licenziamento in tronco viene considerato legittimo.

Il furto ai danni di un collega

I medesimi ragionamenti vengono applicati anche nel secondo caso ipotizzato e cioè per i furti ai danni di un collega.
Anche qui, infatti, la Cassazione ha sottolineato che, al di là dell'entità del bene sottratto, l'atto in sé incrina il rapporto di fiducia tra lavoratore e azienda e ciò basta per giustificare l'applicazione della massima sanzione.
Infatti la Corte stabilisce che "un fatto costituente reato contro il patrimonio, ancorché determinato da un danno patrimoniale di speciale tenuità, nel contesto penalistico, può essere considerato di notevole gravità nel diverso ambito del rapporto di lavoro, tenuto conto della natura del fatto, della sua sintomaticità e delle finalità disciplinari della regola violata" (Cass. n. 1814/2013).

Cosa fare se si scopre un collega a rubare?

Resta ora da chiarire se il lavoratore che si accorge di comportamenti illeciti di un proprio collega abbia qualche obbligo di intervento o debba, addirittura, impedire il compimento del fatto.
L'unico obbligo effettivamente esistente è quello di riferire l'atteggiamento del collega al proprio superiore gerarchico, poiché non esiste nessun onere di impedire l'azione criminosa.
Ciò è ormai appurato anche dalla giurisprudenza di legittimità che in diverse pronunce ha stabilito come unico obbligo quello di riferire al proprio datore di lavoro (Cass. n. 8407/2018).

E se il lavoratore "copre" i furti di altri colleghi?

Questa ipotesi è stata risolta nella sentenza n. 2552/2015 della Corte di Cassazione.
La vicenda nasce da un licenziamento per giusta causa intimato ad un responsabile dell’ufficio commerciale, al quale veniva contestato, tra gli altri, uno specifico episodio in cui avrebbe assistito ad un furto da parte di un collega delle somme incassate dall'impresa.
Licenziamento confermato anche in sede di Appello, poiché i diversi giudici avevano ricondotto l’intenzione di coprire gli ammanchi degli incassi all'art. 45 R.D. n. 148/1931 che dispone la destituzione nei confronti di chi consapevolmente si appropri o contribuisca che altri si approprino di beni aziendali oppure che defraudi o contribuisca a defraudare l’azienda dei suoi beni.

La Cassazione ha confermato quanto già statuito dai giudici di merito, sottolineando che la normativa richiamata non richiede l’accertamento di un concorso doloso nella commissione del fatto, potendo trovare applicazione anche in caso di comportamenti omissivi, come nel caso concreto.

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