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Appropriazione indebita di beni mobili in fase di divorzio

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Con una recente sentenza la Cassazione sezione penale si è pronunciata sul caso di appropriazione indebita di beni mobili condivisi in ambito coniugale e non restituiti al coniuge proprietario in fase di divorzio, nonostante le continue richieste da parte di quest’ultimo.
In particolare, gli Ermellini pongono l’attenzione su due questioni: la prima riguarda il momento consumativo del delitto di appropriazione indebita che deve coincidere con il momento di manifestazione di una volontà chiara e precisa di non voler restituire i beni; la seconda riguarda, invece, la punibilità del fatto allorquando sia commesso dall’ex coniuge.


Il caso

Il caso in esame nasce a margine di un procedimento di divorzio, in particolare, dalla querela sporta dal marito nei confronti dell'ex moglie, colpevole di non aver restituito alcuni beni mobili di pregio di proprietà dell'uomo, posti all'interno della casa coniugale, assegnata inizialmente alla donna.
Difatti, in concomitanza con il provvedimento di modifica del divorzio, con il quale il Tribunale civile statuiva la restituzione dell’immobile al marito proprietario, l’ex moglie asportava i beni mobili all’interno della casa coniugale e li affidava per la vendita ad un antiquario.
Il marito non appena venuto a conoscenza del fatto provvedeva a sporgere querela.

I giudici di merito riconoscevano, sia in primo che in secondo grado, la colpevolezza della donna, condannata per «appropriazione indebita di oggetti di pregio appartenenti all’ex coniuge e dei quali aveva il possesso in quanto costituenti parte dell’arredamento di quella che era stata la loro casa coniugale».

Secondo la difesa della donna però, il marito era a conoscenza dell’intenzione dell’ex moglie di trattenere i beni oggetto di discussione sin dagli inizi del giudizio di separazione, allorquando nel suddetto giudizio il marito aveva richiesto la restituzione mai avvenuta da parte della donna.

Tale circostanza poneva in risalto due questioni: la tardività della querela da parte dell’uomo (fatta solo dopo anni al momento della restituzione dell’immobile) e la circostanza che il giudizio civile per la separazione personale tra i coniugi aveva avuto inizio nel 2012, sicché l’appropriazione indebita si era verificata in epoca in cui ancora vigeva il matrimonio tra le parti, con conseguente applicazione della causa di non punibilità prevista dal codice penale in caso di fatto commesso in danno del coniuge non legalmente separato.
Alla luce di tali considerazioni la donna proponeva ricorso avanti la Cassazione.

Il delitto di appropriazione indebita commesso ai danni di congiunti

Il reato di appropriazione indebita è disciplinato dall’art. 646 c.p. tra i delitti contro il patrimonio, punendo coloro che per procurare a sé o a altri un ingiusto profitto, si appropriano del denaro o di cose mobili altrui, della quale abbia a qualsiasi titolo il possesso.
La condotta consiste nell’appropriarsi del denaro o della cosa mobile altrui di cui si abbia già il possesso o la detenzione; si tratta dell’abuso del possessore a danno del proprietario.

Il reato presuppone che l’agente abbia il “mero possesso” della cosa ossia un possesso disgiunto dalla proprietà.
Appropriarsi significa comportarsi verso la cosa come se fosse propria, quindi, compiere atti di disposizione a cui il possessore non è autorizzato.

L’elemento soggettivo consiste nella volontà di compiere un atto di disposizione che compete esclusivamente al proprietario; occorre, altresì, la consapevolezza di avere il possesso della cosa e che la stessa sia di altri.
L’uso momentaneo della cosa che non pregiudica i diritti del proprietario, non costituisce reato.

Il dolo, inoltre, richiede il fine di procurare a sé o ad altri un “ingiusto” profitto (economico, morale o sentimentale); il reato è escluso ogniqualvolta manchi l’ingiustizia del profitto.
Per la configurazione del delitto basta che l'ingiusto profitto sia potenziale, non essendo necessario che esso si realizzi effettivamente.

Particolare disciplina riguarda il delitto di appropriazione indebita commessa ai danni dei congiunti. Difatti, l’art. 649, comma 1, c.p., prevede la non punibilità del fatto commesso ai danni del coniuge non legalmente separato. Dunque, al fine della punibilità è necessario verificare lo status dei coniugi al momento in cui viene realizzata la condotta criminosa.

La decisione della Cassazione

La Corte di cassazione, al fine di dirimere la questione pone luce su due aspetti di diritto.
In primo luogo, ribadisce come la natura del possesso di beni mobili condivisi in ambito coniugale non si trasforma automaticamente in appropriazione indebita fino a quando non si manifesta un'intenzione chiara e inequivocabile di non restituzione, caratterizzata da atti concreti di spossessamento o alienazione.

Dunque, nel caso di specie, la consumazione del delitto era da ricondurre al momento in cui l’ex moglie aveva asportato i suddetti beni dalla casa coniugale e li aveva affidati ad un negozio per la vendita due anni dopo il divorzio e non al momento del giudizio di separazione dove si era rifiutata di consegnare i beni.

Tale questione è utile al fine di collocare temporalmente il momento consumativo del delitto e, dunque, verificare sia la tempestività della querela, come nel caso di specie, ed altresì verificare l’applicabilità o meno della causa di non punibilità prevista dall’art. 649 c.p.
Difatti, il secondo aspetto riguarda proprio l’art. 649 comma 1 c.p., il quale prevede che la punibilità del fatto sia esclusa solo allorquando il delitto sia posto in essere dal coniuge non legalmente separato.
Nel caso di specie, il fatto è avvenuto due anni dopo il divorzio, pertanto, non può trovare applicazione nel caso di specie.
Alla luce di ciò, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso e conferma la condanna in capo all’ex moglie.

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