Sempre più triste e frequente argomento di cronaca è il comportamento di minorenni che partecipano a giochi pericolosi in rete, comportamenti che possono compromettere il loro equilibrio psicofisico nell'età dello sviluppo e della crescita.
Compito dei professionisti del diritto minorile è spiegare le azioni che diventano penalmente rilevanti nell'era digitale.
L’uso di internet e dei social network, come Facebook, Instagram, TikTok, ricopre dall’inizio del nuovo millennio un ruolo chiave nella comunicazione di massa. Questi strumenti, infatti, sono un'indubbia fonte di aggiornamento tecnologico e permettono la creazione di rapporti sociali prima impossibili, eliminando con molta facilità le distanze, come ha dimostrato questo ultimo anno.
Questa vera e propria rivoluzione relazionale e comunicativa può assumere, e nella realtà ha assunto, connotazioni preoccupanti.
Quali sono i possibili pericoli del mondo digitale?
Con un semplice click – un "mi piace"o un “cuore” – il Social network o il sito che stiamo visitando registra innumerevoli informazioni che ci riguardano, come ad esempio: interessi, abitudini o nuovi acquisti in programma. Tali informazioni vengono, poi, elaborate e rimandano come riposta immagini o pubblicità collegate alla nostra ultima ricerca.
Questo tipo di comunicazione, come ad es. i banner, per quanto possa risultare fastidiosa durante la navigazione all'interno della pagina, risulta in sé e per sé molto innocua.
Basterà, di norma, un semplice click sul tasto chiudi e la specifica pubblicità non comparirà più.
Tuttavia, se per la maggior parte dei casi, i video o le immagini sono semplici suggerimenti, gli ultimi anni ci hanno insegnato come soprattutto alcuni Social network frequentati per lo più da soggetti adolescenti (Instagram, TikTok), possano dimostrarsi estremamente pericolosi, arrivando a ingenerare suggestioni talmente importanti, da risultare delle vere e proprie manipolazioni psicologiche.
Un esempio che spicca su tutti sono sicuramente i “giochi pericolosi” divenuti tristemente noti, anche in Italia, che spopolavano e spopolano tutt'ora, in particolar modo, sulla piattaforma TikTok – ma gli altri Social non ne sono immuni.
TikTok è conosciuto, principalmente, per le semplici coreografie che diventano virali in poco tempo e che conta il maggior numero di utenti tra i giovanissimi.
Cos'è la Blue Whale Challenge
Proprio su questa piattaforma, uno dei “giochi” più famosi e macabri era la Blue Whale Challenge: “sfida” ideata da uno studente russo di psicologia nel 2017, la quale si componeva di 50 regole – quali, per esempio, guardare filmati macabri per tutta la notte, la totale segretezza e sottomissione, l'ubbidienza cieca al proprio “curatore”, etc. – e che si concludeva con la richiesta di lanciarsi da un palazzo.
Più che un gioco quindi è da considerarsi una vera e propria manipolazione che si terminava con la morte della vittima.
Chiaramente il tutto era indirizzato a soggetti psicologicamente deboli, facilmente condizionabili, con lo scopo di convincerli della loro inutilità e predestinazione al sacrificio.
La manipolazione psicologica è penalmente rilevante?
Nel nostro ordinamento era presente un reato, il plagio: “chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni”. L'articolo 603 c.p. che regolava questa condotta è stato dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 96/1981 della Corte Costituzionale, a causa della mancanza di precisione e di chiarezza della norma, la quale non individuava in modo certo quale comportamento dovesse essere punito e potesse rientrare nella fattispecie, lasciando troppa libertà interpretativa al giudice.
Nel corso degli anni si è tentato diverse volte di reintrodurre questa ipotesi, ma tutti gli iter normativi si sono sempre interrotti.
Anche l'ipotesi di manipolazione mentale aveva avuto occasione di essere introdotta nel nostro ordinamento penale, attraverso il disegno di legge del 04.03.2005, prevedendo che rientrassero nella fattispecie: tutte quelle tecniche di condizionamento della personalità o di suggestione, praticate con mezzi materiali o psicologici, finalizzate a porre un’altra persona in uno stato di soggezione che escluda o limiti la libertà di autodeterminazione della vittima.
Nonostante anche questo delitto non sia stato approvato, la condotta che veniva incriminata, nello specifico consisteva nell'annientamento della volontà del soggetto, facendo sì che lo stesso fosse costretto a fare, tollerare od omettere qualche cosa, rientra nel reato di violenza privata, regolato dall'art. 610 c.p., applicabile quando la vittima debba subire la prepotenza del reo a causa della violenza fisica o delle minacce di quest’ultimo.
In particolar modo, le minacce consistono nella prospettazione di un male ingiusto che la vittima patirà se non ubbidirà agli ordini dell’autore e secondo la giurisprudenza, la minaccia si concretizza in qualsiasi comportamento o atteggiamento idoneo ad incutere timore e a suscitare la preoccupazione di un danno ingiusto (Cass., sent. n. 7214/2006).
Condannata la 'curatrice' che ordinava i gesti da compiere
È proprio sulla base di questa normativa che si è concluso recentemente a Milano un processo durato due anni, nei confronti di una ragazza che, nella veste di “curatrice” della Blue Whale Challenge, imponeva alle proprie vittime, nello specifico una ragazzina all'epoca dodicenne, le prove da superare.
I reati contestati sono la violenza privata ex art. 610 c.p. e gli atti persecutori ex art. 612 c.p. in quanto, in primo luogo è presente l’esercizio di minacce per costringere la vittima “a fare, tollerare od omettere qualche cosa” ed in secondo luogo, ai sensi dell’art. 612 c.p., comma 1, le condotte reiterate erano tali “da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”, visto e considerando che, l'imputata, avrebbe reiterato le proprie minacce avvisando la dodicenne di conoscere il suo indirizzo IP – cioè il luogo da cui si connetteva – e quindi di poterla raggiungere e uccidere qualora avesse interrotto la partecipazione alla “sfida”.
Quest’ultima fattispecie è inoltre aggravata dal fatto che le condotte sono state poste in essere su un soggetto minore e mediante l’utilizzo di strumenti informatici o telematici, ex art. 612 commi 2 e 3.
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