In tema di responsabilità medica, la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che l'omessa diagnosi delle malformazioni del feto determina la lesione del diritto all'autodeterminazione della gestante, la quale non può liberamente valutare se interrompere o meno la gravidanza.
Tale omissione chiaramente comporta l'insorgere di una responsabilità in capo all'istituto ospedaliero o al medico e un conseguente risarcimento del danno in favore dei futuri dei genitori.
Il concetto di nascita indesiderata
Sino alla Sentenza della Cassazione Civile, n. 7385/2021, i temi della responsabilità e del risarcimento dei danni erano stati ancorati al concetto di “nascita indesiderata” ovvero alla circostanza che, in mancanza della diagnosi delle patologie del feto, la gestante non sarebbe stata correttamente informata e non avrebbe potuto esercitare il diritto all'interruzione di gravidanza previsto dagli artt. 4 e 6 della legge n. 194/1978.
Nel caso oggetto della recente sentenza della Cassazione, due coniugi agivano in giudizio nei confronti della struttura sanitaria per ottenere il risarcimento dei danni inerenti:
1) Alla violazione del diritto all'autodeterminazione;
2) Al danno patito dalla neonata per il ritardo con cui erano state diagnosticate le patologie da cui era affetta, aggravando ulteriormente la condizione patologica.
Entrambe le domande venivano rigettate in quanto, i giudici di merito rilevavano che la gestante non aveva provato che, qualora fosse stata informata delle gravi patologie del bambino, avrebbe manifestato la volontà di ricorrere all'interruzione volontaria della gravidanza.
Mentre con riferimento al danno da ritardo, i giudici escludevano l'esistenza del nesso di causalità tra la malformazione cardiaca diagnosticata tardivamente, l'intervento non tempestivo del chirurgo e il ritardo psicomotorio.
La Corte d'Appello, a sostegno della propria decisione, richiamava la sentenza della Cassazione Civile, Sezioni Unite, n. 25767/2015 nella quale veniva affermato che non si può presumere che la gestante scelga sempre di interrompere la gravidanza ove informata delle gravi malformazioni del feto e che incombe sulla madre l'onere di provare che avrebbe deciso di abortire, esercitando tale facoltà ove fosse stata tempestivamente informata dell'anomalia fetale.
I coniugi proponevano quindi ricorso per Cassazione deducendo che la Corte d'Appello non aveva considerato la violazione del consenso informato.
Il diritto all'autodeterminazione va sempre tutelato
La Suprema Corte nella sua decisione riconosce il risarcimento in favore della madre e lo fa prescindendo dalla prova della volontà abortiva, tutelando così il diritto all'autodeterminazione procreativa e cioè la possibilità di scegliere di non abortire e di prepararsi, psicologicamente e materialmente, alla nascita di un bambino affetto da gravi patologie.
Tale decisione risulta particolarmente innovativa proprio perché si allontana e abbandona il tema della “nascita indesiderata” e dell'interruzione di gravidanza come unica strada percorribile in caso di conosciute malformazioni fetali, allineandosi invece a quel filone giurisprudenziale recentemente formatosi in tema di diritto all'autodeterminazione terapeutica, che tutela il diritto al consenso informato e alla possibilità di meditare sulle conseguenze, nonché sulle possibili scelte terapeutiche e che trova tutela nella Legge 22 dicembre 2017, n. 219.
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